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EDITORIALE | Il valore collettivo della distanza

Avevo pensato di scrivere del sito di Uomini e Trasporti, che da aprile si rinnova dopo tanti anni. E delle due sezioni inedite che ospita, due community tra persone unite dal trasporto: una dedicata a tutti i possibili comportamenti con cui incoraggiare la sicurezza stradale, l’altra a far lievitare la troppo striminzita presenza femminile nel settore. Poi la vita è cambiata e le cose preventivate sono scivolate via.

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Avevo pensato di scrivere del sito di Uomini e Trasporti, che da aprile si rinnova dopo tanti anni. E delle due sezioni inedite che ospita, due community tra persone unite dal trasporto: una dedicata a tutti i possibili comportamenti con cui incoraggiare la sicurezza stradale, l’altra a far lievitare la troppo striminzita presenza femminile nel settore. Poi la vita è cambiata e le cose preventivate sono scivolate via. Per carità, il sito lo abbiamo rinnovato lo stesso – in smart working, ovviamente – ma scriverne qui, adesso, mi sembra inadeguato. Perché tutto è diventato secondario rispetto a un’esperienza destinata a segnare una pietra miliare nella storia dell’uomo, una pandemia alitata e velocizzata dalla globalizzazione. Perché è vero che anche la famigerata peste nera partì dalla Cina e arrivò a contagiare l’intera Europa, ma allora per coprire l’intero percorso impiegò sei lunghi anni. Oggi il virus ha viaggiato in aereo e in nemmeno sei settimane ha colpito più o meno duramente l’intero pianeta. Dire ora se e come si è sbagliato serve a poco, semmai è urgente capire, terminata l’emergenza, in che modo ripartire. E qualsiasi cura sarà giocoforza condizionata dal fattore dilagante del contagio, costituito dai movimenti globali.

qualsiasi cura sarà giocoforza condizionata dal fattore dilagante del contagio, costituito dai movimenti globali

Due approcci al riguardo sembrano confrontarsi.
Da una parte c’è chi, per proprietà transitiva, è convinto che se il virus è il male e la globalizzazione ha allargato il contagio del virus, la globalizzazione è di per sé stessa il male. Di conseguenza bisogna arginarla restituendo sovranità piena agli Stati nazionali. Segni di questo approccio si trovano in ogni dove. Sono evidenti nei paesi esteuropei, dimostratisi subito rigidi nella chiusura indiscriminata delle frontiere, dimostrando che per loro il coronavirus era una scusa per riuscire a fare oggi quanto avrebbero voluto fare già ieri. Ma si rinvengono anche nell’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, arrivato a ritenere sgradite le terapie di sostegno dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), preferendo individuarne altre squisitamente americane.

Dall’altra parte c’è chi insiste sulla necessità di gestire in modo sovranazionale crisi e dopocrisi, per il semplice motivo che il globale lo si argina soltanto con il globale. Lo si predicava rispetto alla crisi ambientale, vale lo stesso per una sanitaria, perché sia aria che virus non conoscono confini. D’altra parte, proviamo a pensare: la Cina, dove tutto è nato, ha confinato il contagio in una sola regione (Hubei), marginalizzandone l’impatto sul resto di una popolazione di 1,4 miliardi di persone; l’Unione europea, popolata da mezzo miliardo di abitanti, non è riuscita a confinare il contagio all’Italia, peraltro popolosa quanto l’Hubei, perché ogni Stato membro ha preferito portare avanti una propria politica. Guardando a domani, quindi, il problema non è di aver avuto troppa Europa, ma di averne troppo poca. Il problema è di creare un meccanismo che eviti agli organismi sovranazionali di scomparire di fronte all’espressione sovrana di un qualsiasi paese che dovrebbe rappresentare (il caso dell’Austria, in tal senso, è esemplare). Il problema è di riuscire a rimuovere quella diffidenza accumulata rispetto a tutto ciò che è collettivo. Missione quasi impossibile. Anche se la storia insegna che, proprio in frangenti tragici, qualcosa si muove. Prova ne sia che le principali esperienze sovranazionali – l’Onu e l’Unione europea – quelle in grado di minimizzare drasticamente l’istinto bellico nel mondo, sono sorte dopo il più grande sacrificio umano del secolo scorso.

l’Unione europea, popolata da mezzo miliardo di abitanti, non è riuscita a confinare il contagio all’Italia, peraltro popolosa quanto l’Hubei, perché ogni Stato membro ha preferito portare avanti una propria politica

E allora, mi piace sperare che la triste vicenda del covid-19 ci aiuti a riscoprire cosa significhi solidarietà e condivisione, ma soprattutto a rinvenire traccia di noi nelle espressioni collettive. A sperimentare, per quanto riguarda il trasporto, la forza del dialogo tra vettori e committenti o l’opportunità dell’aggregazione tra simili, unica terapia in grado di frenare quell’emorragia che ha spazzato via dal mercato diecimila padroncini in poco più di sei anni.

Una buona palestra in tal senso è il valore biunivoco della distanza, vale a dire il principale strumento eletto per frenare il contagio: serve per un verso a proteggerci e per un altro, eventualmente, a proteggere gli altri. A rendersi nuovamente conto di essere in tanti, proprio quando ci si trova improvvisamente da soli.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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