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EDITORIALE | La sostenibilità storica

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Poi un giorno apri gli occhi. E ti rendi conto che la transizione energetica è un processo epocale, destinato a lasciare traccia nella storia (speriamo come la fase in cui l’uomo salvò se stesso dall’inquinamento), ma che vive comunque nella storia. Mentre si srotola, cioè, si sovrappone ad altri fenomeni con cui fare i conti. Mentre qualcuno ingaggia battaglie con l’ambiente, da qualche parte se ne combattono altre più sanguinose, rendendo la transizione storicamente insostenibile. Spiego in che senso.

La transizione energetica non parte nel momento in cui un’azienda di autotrasporto inizierà ad acquistare veicoli a zero emissioni, ma è già stata intrapresa laddove qualcuno ha approvato normative con cui preparare il terreno affinché quell’acquisto diventi possibile. Cosa vuol dire? Vuol dire che al momento attuale in pochi spenderebbero coscientemente un euro di più per tendere una mano al pianeta tramite un mezzo pulito, ma molti stanno già spendendo di più per fare in modo che quei veicoli possano diventare economicamente sostenibili. Gli esempi in tal senso sono tanti. Quello più evidente è la direttiva eurovignetta. Vi si legge che «chi inquina paga» e che, al contrario, chi non produce CO2 fa a meno di pagare. La Germania ha applicato così tale principio sulle autostrade: i veicoli elettrici sono esentati dal pedaggio, quelli diesel che fino a ieri pagavano 19 centesimi a chilometro, adesso ne versano fino a 34. Quindi, chi fino a ieri percorreva 100 mila chilometri in autostrada pagando 19 mila euro di pedaggi, adesso ne spenderà da 30 mila in su. Così, il veicolo a zero emissioni rimane caro, ma un po’ meno rispetto a prima. Ma soprattutto ciò che aiuta a comprendere il moto transizionale è la modalità con cui lo Stato tedesco intende spendere i 30-40 miliardi che conta di intascare dai maggiori pedaggi, vale a dire facendo manutenzione e implementazione della rete ferroviaria. In pratica, si chiede a chi oggi trasporta con veicoli stradali di finanziare la costruzione di un domani in cui magari potrebbe essere marginalizzato. Dico «magari», perché si auspica che costui comprenda per tempo la direzione del cambiamento e vada a integrare con altre modalità le tratte che attualmente percorre via gomma.

Altro esempio è il prezzo dei camion. Oggi, un trattore stradale che prima della pandemia veniva via a 80-90 mila euro, ne costa 135-140 mila. Se si tiene conto del tasso di inflazione annuo, si riesce a giustificare un pezzo di tale incremento. L’altro pezzo è costituito da una sorta di obolo richiesto a chiunque acquisti veicoli diesel per sorreggere il business ancora claudicante delle motorizzazioni alternative. Non è un delitto. Le aziende devono quadrare i conti e, avendone la possibilità, cercano di coprire, tramite gli introiti generati dai prodotti richiesti, gli ammanchi di quelli che non vuole nessuno, ma su cui hanno investito milioni di euro. Quindi, almeno 20 mila euro pagati da chi acquista un camion diesel servono a fornire ossigeno all’asfittico camion elettrico. E magari a stringere ulteriormente quella forchetta che misura il differenziale dei costi tra i due veicoli.

Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Ma per comprendere cosa intenda per «sostenibilità storica» bisogna mettere a fuoco il contesto in cui avviene tale processo. E fare riferimento alle guerre in Ucraina e a Gaza e, soprattutto, agli attacchi condotti dagli Houthi yemeniti contro le navi mercantili in transito sul Mar Rosso. Da inizio novembre, poco meno di 300 portacontainer hanno preferito, invece di risalire via Suez, circumnavigare l’Africa, doppiando il Capo di Buona Speranza. Il conseguente incremento dei costi ha fatto schizzare i noli del 243%. E tutto questo, insieme ai ritardi, ha prodotto sui porti italiani un vento secco di contrazione. Anche perché sulle banchine soffiava già un’altra brezza gelida: dal 1° gennaio i trasporti marittimi sono entrati nel sistema Ets (strumento concepito a Bruxelles per ridurre la CO2, creando un mercato di scambio delle emissioni di gas a effetto serra) e quindi sono costretti a pagare anche loro una sorta di tassa in relazione a quanto emettono. Stime fondate calcolano che una portacontainer in viaggio tra Asia ed Europa a fine anno si troverà a spendere 800 mila euro in più rispetto a ieri. Quindi, in quell’incremento del 243% c’è impacchettata una parte di questi extracosti da transizione, che gli armatori riversano a valle.

Alla fine, l’azione combinata di «tasse» sulla CO2 e di sovraccosti generati dalla guerra, rendono storicamente insostenibile l’attuale contingenza. Non lo dico io: a fine gennaio alcune aziende di autotrasporto attive a Genova e in altri porti liguri hanno intavolato una trattativa con i sindacati per ottenere la cassa integrazione per i loro conducenti.

Nello spazio di un mattino siamo passati dal lamento di chi quantificava in decine di migliaia le braccia mancanti per girare volanti di camion già carichi, alla constatazione che forse, visti i tempi, di autisti di mezzi pesanti ce ne sono anche troppi.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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