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Financial Times: per trovare autisti non basta una retribuzione maggiore, serve pure una vita migliore

«Non è una vita normale per un essere umano. È come una prigione, non è un lavoro». Lo ha detto al quotidiano britannico Financial Times un esule bielorusso di trent'anni che dopo aver lavorato per 13 settimane come autista per un'azienda lituana, ha deciso di smettere, malgrado guadagnasse poco meno di 2.500 euro. Una storia significativa, che insegna come ormai per motivare i giovani alla professione di autista, non bastano i soldi, ma servono più servizi e un'esistenza più serena

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In tutto il mondo si parla di carenza di autisti. E ovunque iniziano a diffondersi analisi dettagliate sulle ragioni che provocano il fenomeno. Molto interessante in proposito l’inchiesta pubblicata nei giorni scorsi dal Financial Times, quotidiano economico-finanziario britannico, che partiva nel riportare il commento espresso da Aliaksandr Matsiash, un esule bielorusso di trent’anni che, dopo due settimane di formazione per diventare autista con l’impresa lituana Baltic Transline e dopo 13 settimane di lavoro a bordo di un camion facendo base nei Paesi Bassi, ha deciso di mollare, malgrado percepisse (come primo impiego) una retribuzione di 2.470 euro. «Non è una vita normale per un essere umano» – è stato il suo commento – «È come una prigione, non è un lavoro. Lo fai come uno zombie». 

Questo episodio – in parte smentito da Baltic Transline, che ha puntualizzato che rispetta in modo rigoroso i tempi di guida e di riposo e fornisce agli autisti un alleggio adeguato e condizioni di lavoro più che degne – serve a far capire che spesso, ormai, a tenere lontane le giovani generazioni dal camion non è tanto il livello retributivo, quanto il tipo di vita, di sacrifici e di privazioni imposte dalla professione. Un processo di allontanamento iniziato già all’inizio dello scorso decennio e poi proseguito in maniera sempre più intensa, facendo salire progressivamente l’età media degli autisti europei giunta ormai alla soglia dei 55 anni, proprio perché manca un ricambio generazionale all’ingresso. Ad aggravare il processo, poi, secondo il Financial Times è anche il fatto che le multinazionali hanno abbassato i costi della catena di approvvigionamento e reso sempre più stretti i processi. Keith Newton, segretario generale del Chartered Institute of Logistics and Transport International, ha spiegato al quotidiano britannico che «il commercio globale sta diventando sempre più complesso, i consumatori vogliono consegne più veloci e semplicemente non ci sono abbastanza autisti qualificati per gestire questa domanda in tutto il mondo». Tanto che anche un’azienda di autotrasporto delle dimensioni di Girteka prevede di assumere 7.000 nuovi autisti nel corso di quest’anno, perché reputa necessario disporre di nuovi dipendenti per permettere a quelli già in disponibilità di trascorrere più tempo a casa.

Il problema è che autisti non se ne trovano, ormai neppure all’Est. Rod McKenzie, della Road Haulage Association, ha dichiarato che «l’unico posto che non ha una significativa carenza di autisti è l’Africa».

Come si fa a trovarne? In molti paesi – nel Regno Unito e negli Stati Uniti, in particolare – stanno aumentando le retribuzioni. Ma, come dimostrava il caso dell’esule bielorusso, ormai le retribuzioni non bastano. Esemplare in tal senso l’esperienza di Patrick Doran, un autista di camion inglese che dopo sette anni, adesso si è deciso ad andare a guidare gli autobus perché se anche guadagna qualcosa meno, almeno vive meglio, perché non deve andare a caccia di bagni e di parcheggi e può riposare nel modo in cui desidera.

«Amavo questo lavoro» – gli fa eco Jose Queiros, un cittadino portoghese arrivato nel Regno Unito nel 1990 per guidare camion. Dallo scorso aprile, però, ha preferito andare a lavorare in una cava. E gli sembra un lavoro molto meno difficile.

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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