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Ivano Russo, neo amministratore unico di RAM. Parola d’ordine «interoperabilità»

Per far funzionare la piattaforma logistica nazionale non c’è bisogno di un modello o di un gestore unico, basta condividere soltanto un set di informazioni utili. Così come avviene per il bancomat o le prenotazioni sanitarie. Come succede già all’estero

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Doveva essere (nel 2004) lo strumento operativo per realizzare le Autostrade del Mare, sogno dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Oggi, a 18 anni compiuti, scopre che la vita reale è diversa dai sogni, che le necessità quotidiane le hanno cambiato il destino, che a forza di aggiungere competenze il carico di lavoro si è ingigantito. A un certo punto, qualcuno si è reso conto che non aveva più senso chiamare Rete autostrade mediterranee un soggetto che distribuiva incentivi (combinato, formazione, rinnovo del parco) ai camionisti, gestiva programmi europei legati alla rete TEN-T e non solo, forniva assistenza tecnica alla Conferenza di coordinamento delle Autorità di sistema portuale e segretariato al Partenariato per la logistica e i trasporti. E hanno deciso di ribattezzarla, lasciando del vecchio nome solo l’acronimo «RAM» e aggiungendo, dopo un trattino, «Logistica, Infrastrutture e Trasporti». Con il risultato che tutti continuano a chiamarla RAM. Poi, a novembre 2021 le hanno affibbiato anche la scommessa della piattaforma logistica nazionale, tolta a Uirnet, a cui non è bastato cambiare il nome in DigITAlog per salvarsi dalla liquidazione.
Adesso in vetta a questa montagna di competenze, assegnate alla società di gestione in house del ministero per le Infrastrutture e la Mobilità sostenibili, è stato collocato, come amministratore unico, Ivano Russo, dinamico dirigente pubblico passato per il Parlamento europeo, la Presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero per l’Innovazione della Pubblica amministrazione, quello per la Coesione territoriale e per lo stesso MIMS dal 2015 al 2018. Napoletano, 44 anni, fisico asciutto da atleta, occhi svegli e parlantina sciolta, Russo ha preso di petto il nuovo incarico, senza lasciarsi scoraggiare dalle tante facce della sua società. A chi gli chiede se questa RAM non abbia troppa carne al fuoco, risponde scuotendo la testa: «Direi di no. Le funzioni che svolge per conto del ministero sono effettivamente tante, ma non vedo difficoltà, tanto più che la società si sta molto irrobustendo sia dal punto di vista delle competenze, sia dal punto di vista dell’organico».

Anche lei ha sostenuto che è il momento di assestare la società, dopo i tanti cambiamenti, per cominciare a mettere in pratica le sue potenzialità. Cosa ha intenzione di fare?

Ho detto questo perché RAM è stata oggetto di una serie importante di ampliamenti delle proprie funzioni istituzionali nel corso degli ultimi anni, in alcuni casi per decisione dei vari ministri che si sono succeduti, in altri casi addirittura per volontà del Parlamento. Ne cito due su tutti: uno è quello del segretariato della Conferenza nazionale delle Autorità di Sistema portuale, introdotto con la riforma della portualità del 2016, l’altra, del 2021, è la realizzazione della piattaforma logistica nazionale, dopo l’esperienza di Uirnet. Quindi credo che sia venuto il momento di cominciare a svolgere tutte queste funzioni in maniera strutturata e solida, evitando almeno per i prossimi mesi di immaginare ulteriori ambiti di attività. C’è abbastanza da fare con la gestione degli incentivi intermodali, con l’assistenza all’Albo degli autotrasportatori, con la Conferenza dei porti, con gli interventi per la digitalizzazione di porti e logistica. RAM è anche – per legge – coordinatore tecnico dell’Organismo di Partenariato per la Logistica e i Trasporti presieduto dal ministro. Senza dimenticare la funzione di implementing body del ministero che la società svolge per quasi tutti i progetti europei.

Lei ha svolto un’interessante analisi sulle differenze storiche fra i porti del Northern Range e quelli italiani, i primi frutto di grandi imperi coloniali, gli altri più legati allo sviluppo dei Comuni. Questo vuol dire che il divario non sarà mai colmato?

Non è un problema di divario, ma di domanda. Purtroppo, l’Italia è abituata a ragionare di logistica solo dal lato dell’offerta: di infrastrutture, di vettori, di servizi. Ma le merci non è che vagano per il mondo a caso, vanno dove c’è domanda, sia di consumatori finali, sia di industrie. Sono 15 anni che il nostro paese non muove più di 10-12 milioni di container, sia vuoti che pieni. Il totale volumi in import/export del Paese – trasportato in tutte le modalità – è storicamente attestato tra le 470-480 milioni di tonnellate l’anno. Tra l’altro il 65-70% di questi volumi viaggia in un raggio massimo di 2.000 Km, circa due volte la distanza tra Milano e Catania. La nostra «gittata logistica» è piccola, perché la nostra economia reale, la nostra produzione industriale e i suoi scambi, la nostra bilancia commerciale, le nostre relazioni economiche internazionali sono sostanzialmente paneuropee e in parte nordafricane. Qualcosa si può recuperare, perché è ovvio che sarebbe meglio che le merci con destinazione finale in Pianura padana, ci arrivassero da La Spezia, da Livorno o da Genova e non da Rotterdam. Ma parliamo di percentuali poco rilevanti. Se la domanda del sistema economico italiano – cittadini consumatori e imprese – è questa, non possiamo immaginare di arrivare a 20 milioni di contenitori. Perché la merce di questi container per chi sarebbe?

La sfida della piattaforma logistica nazionale finora si è rivelata molto complicata. Come pensa di affrontarla?

In modo semplice, come già avviene in tutti i Paesi europei: attraverso il meccanismo dell’interoperabilità delle banche dati dei soggetti coinvolti. Non dobbiamo inventarci nulla. Esistono già chiare indicazioni europee incentrate sul sostegno all’interoperabilità delle banche dati. Tra l’altro nel 2021 anche l’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) per conto del ministero dell’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale ha diramato una direttiva su come rendere interoperabili le banche dati delle pubbliche amministrazioni centrali. Noi dobbiamo mettere in condizione i sistemi informatici delle Capitanerie di Porto, delle Dogane, delle Autorità di Sistema Portuale – e anche degli altri generatori di dati: ANAS, RFI, gestori autostradali – di interoperare attorno a un set condiviso di informazioni minime.  

Solo alcune? Non c’è bisogno di un modello unico?

No. Non serve un modello, né un gestore unico. Si tratta di ragionamenti un po’ antiquati dal punto di vista tecnologico. Ovviamente bisogna – ripeto – fissare i pilastri in maniera corretta perché devono essere solidi. È chiaro che quando si è perseguito l’obiettivo del modello e del gestore unico, si è fatto fatica a far convogliare in un unico percorso storie digitali, software, gestori e amministratori di enti diversi. Ma se il tema è lo scambio di dati, allora cambia tutto. Faccio l’esempio dei bancomat. Se ritiro 100 euro a un bancomat che non è della mia banca, lo sportello chiede in tempo reale alla mia banca se c’è copertura: se questa risponde di sì, lo sportello eroga le banconote per poi farsele restituire. Non c’è bisogno che la banca che mi eroga i 100 euro sappia tutto di me, come lo sa la mia banca. Non c’è bisogno che tutte e due siano gestite da uno stesso gestore informatico o che abbiano lo stesso software gestionale. C’è bisogno solo che le due banche dati dialoghino machine2machine su un set di informazioni condivise.

E allora come mai non si segue questa procedura?

La legge Bassanini prevede che nessuna amministrazione possa chiedere al cittadino un documento già in possesso di un’altra pubblica amministrazione. Ma se iscrivi un figlio all’università, ti chiedono il certificato di nascita che c’è nell’archivio del Comune, l’attestato di licenza media che è in quello della scuola. La mancanza di interoperabilità tra banche dati della PA è un problema del Paese, non solo dei trasporti. Su alcuni settori si è andati avanti, altri sono un po’ indietro. Per esempio, se andiamo a fare una prenotazione sanitaria a un CUP in Campania, come mai mi dicono che c’è un posto disponibile in cardiologia nell’ospedale di Avellino? Perché il sistema digitale regionale che gestisce il CUP va a prendere quell’informazione specifica: non sa, dell’ospedale di Avellino, il numero di dipendenti, di infermieri o di medici, quanto prendono di stipendio o chi sono i fornitori esterni di servizi di quella struttura. Sono dati superflui. Né tutti gli ospedali hanno lo stesso sistema digitale o lo stesso gestore tecnologico: c’è solo uno scambio di informazioni necessarie tra vari «nodi» e un «aggregatore centrale» che quei dati vede e può utilizzare. Se applichiamo questo principio, che non è un astratto ma una pratica assai diffusa in altri settori, riusciremo nel nostro scopo.

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